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Ma se esistono varie interpretazioni ed alcuni vuoti etimologici di conoscenza sull'origine del nome, meglio nota è la storia archeologica di Acquappesa, tanto che già da tempo la ricerca in tal senso ha rivolto la sua attenzione al territorio di questo Comune, grazie al ritrovamento di considerevoli reperti di notevole interesse. Esso è considerato dagli archeologi un unicum nel contesto, ben più vasto degli insediamenti storici di età ellenistica presenti in tutto il comprensorio tirrenico. Numerosi studiosi si sforzano, infatti, ormai da decenni, di ricercare il significato di una presenza archeologica così cospicua nel territorio comunale, soprattutto in relazione ai territori limitrofi, che, al contrario, sembrano apparentemente poveri di ritrovamenti archeologici degni di menzione. Il territorio comunale, e più in generale tutto il comprensorio, non hanno al momento restituito tracce di una presenza preistorica e protostorica, vista anche la particolare conformazione geomorfologica del territorio, privo di ripari naturali e di grotte, abituali dimore dell'uomo preistorico. Anche in epoca arcaica e classica il medio Tirreno cosentino sembra essere stato marginale rispetto agli interessi greco-coloniali; i coloni sibariti, infatti, si stabilirono sul versante orientale dell'ampia piana di Sibari ed occuparono, a partire dal VI sec. a.C., con lo stanziamento di alcune sub-colonie, Laos e Skidros, il versante tirrenico relativo alle sole aree alla foce del Lao e all'ampio Golfo di Policastro, dove entrarono in contatto con le popolazioni indigene, gli Enotri, che abitavano l'antica Calabria al momento della colonizzazione greca (VIII sec. a.C.). Il cantone territoriale compreso tra il Capo Bonifati e l'area di S. Lucido fu occupato stabilmente solo a partire dalla metà del IV sec. e per tutto il III sec. a.C. dalla popolazione dei Brettii, di origine italica, il cui antico ceppo proveniva dall'Italia centrale. Tale popolazione, intorno alla metà del IV, si emancipò dai Lucani, altra popolazione italica scesa in Magna Grecia alla ricerca di terra e di risorse economiche da sfruttare, ed occupò in maniera stabile tutta la Calabria centro-settentrionale, conservandone il controllo e l'assoluta supremazia fino al II sec. d.C., fino a quando cioè arrivarono a colonizzare la regione i Romani. Il riflesso della massiccia presenza dei Brettii o, come volgarmente sono definiti dalle fonti antiche, dei Bruzi nell'area del territorio comunale consiste nell'inpiduazione di alcune piccole unità abitative, a carattere agricolo, vere e proprie fattorie intorno alle quali si disponevano piccoli nuclei di sepolture e gli appezzamenti di terreno da coltivare. Il modello insediativo di queste antiche popolazioni, come si evince dalla documentazione archeologica proveniente dalle ricerche effettuate nell'intera regione, non prevede una organizzazione di tipo urbano ma una presenza sparsa nel territorio, forse in forma di piccoli villaggi, che dovevano occupare la totalità del territorio rurale del Comune, ad una quota altimetrica media di 300 m s.l.m. Cercando di osservare nel dettaglio le presenze archeologiche di Acquappesa, si nota innanzi tutto una presenza abbastanza capillare di insediamenti in buona parte del territorio comunale, soprattutto nell'area collinare. In località Aria del Vento, piccola terrazza degradante verso il Vallone Varco Moroso, furono scoperte casualmente negli anni '70 le strutture di una fattoria che, attraverso lo studio dell'abbondante materiale ceramico, fu possibile datare alla fine del IV - inizi III sec. a. C. La scoperta fatta in località Aria del Vento delle strutture architettoniche del complesso insediativo della fattoria spinse l'allora direttore degli scavi, l'Ispettore Pier Giovanni Guzzo, ad effettuare numerosi saggi ad Est del sito, in località Manco, dove si evidenziarono numerose sepolture, in gran parte manomesse, che restituirono materiali del periodo ellenistico. Tali tombe sono sicuramente da mettere in correlazione con quella da cui proviene il celebre sostegno di specchio in bronzo ritrovato negli anni 50. L'oggetto può essere considerato il simbolo della presenza archeologica in Acquappesa: si tratta di una figura femminile "peploforica" che insiste sulla gamba destra. Il tipo di stoffa appare molto particolare, realizzata con puntini incavati, secondo un identico procedimento dei pinakes (statuette votive) locresi (V sec. a. C.). L'oggetto, usato come sostegno per uno specchio, è conservato nel Museo Nazionale della Sibaritide e costituisce uno dei reperti bronzei più particolari e rari delle collezioni di età ellenistica. Un'altra delle tombe scoperte in quella circostanza, abbastanza grande, del tipo a cassa, intagliata nella pietra locale e con ricorsi di mura a pietrame a secco, era costituita da una grande piano di deposizione di tre file di tegoloni con bordo arrotondato rivolto verso il basso, completata da spezzoni degli stessi che quasi costituivano la soglia della tomba. Nella deposizione non fu ritrovato alcun oggetto di corredo tranne che un candelabro/kottabos in piombo conservato nel Museo Nazionale di Reggio Calabria. Intorno agli anni settanta, durante lavori agricoli, venne, inoltre, scoperta e sconvolta, ad una distanza di una trentina di metri dalla precedente, un'altra sepoltura della quale non fu possibile comprendere la tipologia; il complesso del corredo sepolcrale venne consegnato al Comune di Acquappesa: constava, fra l'altro, di un gancio di cinturone a cicala con disegni ai bordi di palmette e fiori di loto e di un'anfora di tipo panathenaico, attribuita al cosiddetto "Pittore Apulizzante" (350-330 a. C.) anch'esse conservate nel Museo Nazionale di Reggio Calabria. A giudicare dalla tipologia del corredo, si trattava di una sepoltura monosoma maschile, appartenente forse ad un guerriero; esempi affini si trovano anche a S. Domenica Talao e a Marcellina, dove entrambi i corredi recano il gancio di cinturone a forma di cicala, tipico dell'ambiente italico. In tempi recenti, studi e ricerche effettuate dalla Soprintendenza Archeologica hanno accertato la scoperta, sulla stessa linea di quota, di tegoloni, di alcuni ciottoli di tipo fluviale e di un frammento terminale di tegola, decorata a palmette di loto. Inoltre, si segnalano anche le località Vomicheria e Mancusa, altre contrade rurali di Acquappesa, poste a 300-400 m s.l.m., le quali presentano, nello strato di campagna, l'affioramento di numerosi frammenti di tegoloni, e la località Chiusoli, dove si annovera il rinvenimento dell'orlo superiore di un "loueterion" con decorazione a meandro e croce greca. Il territorio del Comune di Acquappesa, oltre ad offrire cospicue testimonianze archeologiche di età ellenistica, peraltro comuni a persi centri costieri del Tirreno, mostra anche una frequentazione di epoca posteriore, di età romana (tra il sec. I a.C. ed il sec. I d.C.). Precisamente, in località Palmentello, intorno ai 100 m s.l.m., durante i lavori di costruzione di un villaggio turistico, negli anni 1977-1978, vennero alla luce numerosi frammenti di embrici oltre a puntali, colli ed anse di anfore romane, frammenti di sigillata aretina e frammenti di vasi comuni, andati per lo più dispersi durante i suddetti lavori edili. La località (il pianoro di fronte allo Scoglio della Regina) in antico si doveva prestare, vista la presenza di molte insenature naturali, all'attracco di navi: ci troviamo dinanzi ad un piccolo approdo pertinente ad una villa marittima romana, collocata in splendida posizione sul mare. Nel periodo tra il 16 Settembre ed il 12 Ottobre 1996 il territorio del comune di Acquappesa è stato oggetto di una campagna di saggi archeologici. In località Chiantima, ad una quota di circa 300 m s.l.m., su di un piccolo pendio coltivato ad uliveto, il comune di Acquappesa in accordo con la Soprintendenza Archeologica della Calabria ha promosso un intervento archeologico mirato a verificare l'attendibilità di alcuni rinvenimenti fortuiti effettuati in tale contrada. L'intervento ha permesso di inpiduare, lungo il ciglio di uno strapiombo, una grande struttura sacra a pianta rettangolare, databile, in base ai materiali, al 1500-1600 d.C. (all'esterno è stata rinvenuta una grande fossa comune), che si installa su di una piccola fattoria brettia (lo scavo ha evidenziato due segmenti di muro a secco tra loro ortogonali, databili, in base alla ceramica a vernice nera in strato, alla seconda metà del IV sec. a.C.) oltre a frammenti ceramici e ad un paio di orecchini in argento conservati presso l'Antiquarium " Torre Cimalonga" a Scalea - CS -. I saggi di scavo hanno rivelato l'importanza dell'intero comprensorio e delle contrade poste intorno alla frazione di S. Iorio: tutte le colline, disposte "ad anfiteatro" lungo quest'ultima zona, sono certamente sede di insediamenti di età ellenistica, come dimostrano i materiali rinvenuti nelle ricognizioni e negli scavi passati. L'effettuazione di continue ricerche topografiche nel territorio ha permesso l'inpiduazione di nuove interessanti aree archeologiche che prossimamente saranno indagate grazie alla collaborazione dell'amministrazione comunale.